La nostra principale fonte di informazioni riguardo la struttura dell’Universo è la radiazione elettromagnetica proveniente dai corpi luminosi che lo popolano; l’uomo, quindi, ha sempre cercato di analizzare lo spettro elettromagnetico che giungeva fino a lui.
Per prima cosa gli studiosi hanno preso in considerazione la porzione di spettro che comprendeva il visibile, sia ad occhio nudo che con l’aiuto di telescopi.
Galileo Galilei, astronomo, fisico, matematico e filosofo italiano, nonché padre fondatore del metodo scientifico, fu il primo studioso ad utilizzare il telescopio rifrattore per uso astronomico a Venezia nel 1609.
Si deve a lui, infatti, il perfezionamento di questo strumento.
Con lo sviluppo della tecnologia, in seguito, si sono prese in considerazione anche altre bande dello spettro elettromagnetico.
In primis le onde radio, raccolte per la prima volta nel 1933 dall’antenna di Karl Jansky, fondatore della radioastronomia, che studiò per primo la radiazione emessa dalla nostra galassia (la Via Lattea). In seguito i raggi-X, scoperti nel 1962 da un’equipe guidata da Riccardo Giacconi, astrofisico italiano, co-vincitore del Premio Nobel per la fisica nel 2002.
Poco dopo vennero osservati raggi γ, provenienti dallo spazio ed assorbiti dall’atmosfera terrestre e, di conseguenza, non rilevabili senza l’ausilio di veicoli spaziali.
Il primo telescopio per l’osservazione dei raggi gamma fu mandato in orbita a bordo del satellite Explorer 11 nel 1961.
Abbiamo anche rilevato, infine, onde gravitazionali, previste nel 1916 nell’ambito della teoria della relatività generale, ma confermate empiricamente soltanto 100 anni dopo, l’11 febbraio 2016, grazie allo studio sulla fusione di due buchi neri distanti circa 1 miliardo e 300 milioni di anni luce.
Le stelle che osserviamo si organizzano in strutture più ampie chiamate galassie che a loro volta si raggruppano in ammassi più grandi e questi ultimi si organizzano, ancora una volta, in superammassi, separati da giganteschi vuoti.
Questa struttura dell’Universo è quella che chiamiamo cosmo a grande scala.
Quando rivolgiamo la nostra attenzione su di esso, appare subito evidente che una descrizione della geometria che lo caratterizza non può essere ricavata basandosi soltanto sulle osservazioni.
Questo è dovuto anche alla velocità finita della luce nel vuoto che, dovendo giungere da remote regioni dell’Universo, impiegherà un tempo finito permettendoci di aver accesso soltanto ad informazioni riguardanti il passato, sempre più remoto man mano che spingiamo la nostra attenzione più lontano.
Per comprendere quanto in là stiamo "guardando nel passato" si necessita, quindi, di strumenti per conoscere la distanza da cui ha avuto inizio la radiazione.
Uno degli strumenti di cui si è in possesso è proprio l’analisi dello spostamento verso il rosso delle linee spettrali, il cosiddetto redshift.
Esso è il fenomeno che si osserva quando una radiazione elettromagnetica emessa da un oggetto ha una lunghezza d’onda maggiore rispetto a quella che aveva all’emissione.
Nel caso della luce, il colore si sposta nella direzione del rosso, l’estremo inferiore dello spettro del visibile, da qui il nome. In generale, che la radiazione elettromagnetica sia visibile o meno, un redshift significa un aumento della lunghezza d’onda, equivalente ad una diminuzione della frequenza o ad una minore energia dei fotoni. Dato che lo spazio percorso dalla radiazione è legato sia all’ipotizzata espansione dell’Universo, sia al movimento mutuale dei corpi nel cosmo, l’analisi delle righe spettrali ci fornisce quantitativamente la distanza che ha percorso quella determinata radiazione elettromagnetica.
Il nostro cono di luce è, dunque, limitato ad una piccola regione dell’Universo e per questo motivo è inevitabile che un modello cosmologico riguardante il cosmo a grande scala sia basato su ipotesi teoriche accettabili, oltre che sulle osservazioni.
Il principio Cosmologico
La cosmologia moderna è basata sul cosiddetto Principio Cosmologico:
l’ipotesi in cui si afferma che l’Universo a grandi scale è spazialmente omogeneo ed isotropo.
Esso si basa su una generalizzazione del Principio Cosmologico Copernicano che rovesciò la convinzione che la Terra si trovasse al centro dell’Universo, affermando che fosse il Sole ad essere il centro.
Il nostro pianeta, dunque, non si trova in una posizione privilegiata nell’Universo, ma in una posizione generica, perfettamente equivalente ad un’altra.
L’estensione progressiva del principio Copernicano ci porta quindi ad affermare che un osservatore, su scala cosmica, osserverebbe ovunque la stessa distribuzione di materia ed energia.
Se ci limitassimo ad osservare la regione più vicina a noi, sulla scala delle decine di migliaia di anni luce, ciò che vedremmo sarebbe unicamente la nostra galassia, la quale ci appare decisamente non omogenea con le stelle che si concentrano principalmente sul piano galattico.
Allargando la nostra visuale sulla scala di milioni di anni luce, scopriamo che le galassie possono essere considerate come corpi isolati, una dall’altra, da milioni di anni luce.
Anche su questa scala, quindi, possiamo notare che siamo ben lontani da considerare il cosmo isotropo ed omogeneo. In questo contesto è d’uopo ricordare il nome di Edwin Powell Hubble, astronomo che classificò per primo alcune strutture del cosmo come oggetti esterni alla nostra galassia (1925).
A lui si deve, soltanto 4 anni dopo, anche lo studio della dinamica dell’Universo e la scoperta che quest’ultimo si stia espandendo secondo la legge :
v = H0 d
dove v è la velocità di allontanamento della galassia nella direzione della nostra linea di vista, d è la distanza della galassia dalla Terra e H0 è una costante di proporzionalità detta "costante di Hubble". Ma in che modo, quindi, possiamo affermare che l’Universo è isotropo ed omogeneo?
Con le moderne tecnologie siamo in grado di allargare ancora maggiormente questa scala, scoprendo che le galassie si aggregano in ammassi che si estendono per centinaia di milioni di anni luce intervallati da regioni di vuoto del medesimo ordine di grandezza. È sulla scala dei miliardi di anni luce, dunque, che l’Universo ci appare isotropo in tutte le direzioni ed è in questa scala che possiamo affermare che l’omogeneità comincia ad essere visibile.
Un’altra conferma dell’isotropia e dell’omogeneità dell’Universo arrivò con la scoperta della radiazione cosmica di fondo (CMB), nel 1964, grazie allo straordinario studio degli astronomi statunitensi Arno Penzias e Robert Woodrow Wilson che li portò a conseguire il Premio Nobel per la fisica nel 1978.
La CMB è stata poi misurata da svariati satelliti in ogni direzione, pressoché isotropa se non per fluttuazioni di ordini di grandezza di 10−5µK.
Lo spettro della radiazione di fondo corrisponde allo spettro di radiazione di un corpo nero con una temperatura T0 = (2, 7280 ± 0, 004)K.
Rappresentando il più perfetto modello di corpo nero che si sia mai ritrovato in natura, la CMB è considerata una prova consistente dell’ipotesi cosmogonica del Big Bang e fornisce rilevanti informazioni sulla struttura dell’Universo primordiale, essendo una radiazione emessa in tempi antichissimi, quando il nostro Universo era molto più piccolo di adesso. Esaminando questa radiazione si è constatato che l’Universo è composto, ad una prima osservazione, da materia visibile (detta materia barionica) e da radiazione. Uno dei dilemmi che ha attanagliato gli scienziati del secolo scorso fu proprio questo: un Universo così composto dovrebbe contrarsi e collassare per auto-gravitazione e non espandersi.
Si è rilevato, inoltre, che le galassie presentano una velocità di rotazione molto maggiore rispetto alla quantità di materia osservata e dunque, per descrivere gli oggetti compatti che osserviamo, le galassie non possono essere formate solo da materia visibile, ma devono essere più massive. Per far quadrare i conti, quindi, gli astronomi ipotizzano la presenza di una materia oscura (che fornisce una massa maggiore alle galassie) ed energia oscura (che bilancia la forza gravitazionale ed è responsabile dell’espansione osservata dell’Universo).
Nonostante la loro natura sia ancora sconosciuta ed ampiamente discussa in svariati modelli cosmologici, si pensa che ad esse sia legato circa il 95 % di densità di energia dell’Universo. Al momento, il modello cosmologico più popolare è il Λ-CDM model, un unverso piatto in cui circa il 75 % della densità di energia è dovuta ad una costante cosmologica (Λ), il 21 % alla materia oscura "fredda" (CDM) ed il restante 4 % alla materia barionica di cui stelle e galassie sono costituite.
Immagini e Bibliografia
- Peter Coles and Francesco Lucchin. Cosmology: The origin and evolution of cosmic structure. John Wiley & Sons, 2003.
- Houjun Mo, Frank Van den Bosch, and Simon White. Galaxy formation and evolution. Cambridge University Press, 2010.
- Peter Schneider. Introduction and overview. In Extragalactic Astronomy and Cosmology, pages 1–43. Springer, 2015.
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