Ho un vago ricordo, una nebbia del passato che di tanto in tanto invade la mia mente e lì cominciano gli episodi. Appena sento questo conflitto interiore, il mio corpo si ammutina e precipito a terra in preda alle convulsioni.
Sono andata da ogni genere di specialista, nessuno ha saputo giustificare i miei attacchi sporadici; non hanno un’origine precisa, un centro nevralgico che li causa, non sono comandabili o scatenabili dalla mia volontà e il fattore esterno è da me incompreso. Non dimora in me una malattia latente, sembra più una possessione demoniaca che mi fa perdere il controllo di ogni mio arto e che lo muove a suo piacere, mi sento una marionetta le volte che riesco a rimanere vigile ma impotente.
Il primo episodio in assoluto è stato nell’estate del 2010, avevo 20 anni ed ero una giovane spensierata come ogni liceale che abbandona l’età dell’adolescenza per dedicarsi alle aspettative della futura donna. Mi ricordo che erano le idi di luglio, nel mio paese c’è una fiera itinerante che ogni anno si ferma per un paio di settimane. È frequentata da tutti i miei coetanei, oltre che dai compaesani dalle età più varie, un ritrova per la vecchia e la nuova generazione che si confrontano in un contesto di gioia e allegria. È un giorno intriso di serenità che spezza il cerchio di tensione e fatica che ci accompagna per tutto l’anno, il mio giorno preferito.
Faccio sempre un giro tra le attrazioni per abbinare le giostre su cui voglio salire con ogni giorno della settimana, anche se alla fine mi rimane sempre tempo per fare un secondo giro su ciascuna di loro. Può sembrare un rito bizzarro, privo di logica, ma mi fa sentire ancora in contatto con la mia parte infantile, con la bambina dentro di me che si nutre della scoperta, della curiosità, che non si accontenta del gioco ma lo vuole assorbire, farlo suo. Nel girovagare notai una novità di quell’anno, un tendone dai colori variopinti e dall’incredibile affluenza di pubblico; forse era già presente nelle edizioni precedenti e il mio occhio non vi si era mai posato sopra, ma sono convinta che un posto così gremito di persone l’avrei quanto meno considerato.
Avvolta dalla curiosità che iniziò a spingermi nella direzione del tendone raggiunsi l’ingresso. Era sostenuto da travi logore, a tratti sconnesse, il cordame che tendeva il telo sopra le teste delle persone pareva usurato dal tempo e i colori vivaci che mi avevano accecata dall’esterno erano molto più opachi e rovinati al suo interno. Mi pareva evidente che il moto di attrattiva non era sicuramente causato dalla grossolanità dell’infrastruttura che mancava di ogni manutenzione, più che una nuova giostra pareva un’arena per un’esibizione, della qualità più scadente e della forma più bizzarra. Appesi con lo spago di fianco all’entrata penzolavano dei manifesti: “Signore e signori, è arrivato in città… Il Circo”.
Non avevo mai assistito in vita mia ad uno spettacolo circense, perciò smisi di tergiversare di fronte a quei fogli di carta che mi oscillavano dinnanzi al viso e mi precipitai direttamente in prima fila. Anche le gradinate erano di fattura scadente, ma lo spettacolo sarebbe stato senza dubbio inedito ai miei occhi e questo lo rendeva l’attrazione dalla quale ero più attratta in quel momento. Le luci si abbassarono e una voce tonante ci accolse con tutto l’apprezzamento che fosse possibile dimostrare. Nello stesso momento il mio cuore saltò un battito per il colpo dato da quell’improvvisa introduzione, ma si trasformò subito in grande eccitazione. Una dopo l’altra si susseguirono le esibizioni, e ad ognuna la meraviglia mi si dipingeva sul volto. Notai solo dopo la prima interruzione dello spettacolo che avevo tenuto la bocca aperta così a lungo da averla completamente seccata.
Uscii dalla tenda in cerca di una bevanda per dissetarmi e iniziai ad avere un capogiro. Nulla di rilevante, mi dissi. Una reazione quasi naturale quando ci si alza troppo rapidamente dopo un certo periodo in posizione seduta. Procedetti come se nulla fosse in direzione del tendone. Varcai nuovamente la soglia e in quel momento le vertigini ripresero e iniziarono ad acutizzarsi, poi d’un tratto scomparvero; nel frattempo lo spettacolo era ricominciato, un paio di artisti iniziarono ad esibirsi e poi d’un tratto… Buio. Il sipario era calato sulla mia coscienza, ero precipitata nel sonno eppure sentivo i movimenti delle persone che facevano circolo intorno a me e ad un certo punto, in lontananza, il rumore di una sirena.
Ripresi conoscenza in ospedale dove fui informata dell’accaduto. Come le ho detto ciò che mi accadde quella volta continua a ripetersi e non ho capito quale ne possa essere il fattore causale, se non è una ragione puramente clinica dev’essere sicuramente una condizione psicosomatica. È la natura del motivo che mi ha portata da lei, dottore.
C’è questo ricordo recondito che non riesco a raggiungere, una scena rimossa dalla mia psiche che non riesco a ricostruire. Non credo di essere mai stata ad un circo, ma l’unica spiegazione che trovo legittima è correlata in qualche maniera a quel posto. Quella reminiscenza è di un periodo felice della mia vita, lo conservo avidamente anche se è stato in gran parte cancellato dal tempo, o da qualcosa di ancora più crudele.
È ambientato nel periodo estivo, coincidenza da non sottovalutare, che io e i miei genitori, quand’erano ancora vivi, trascorrevamo nella natura. Eravamo soliti chiedere in prestito la baita di un nostro parente, purtroppo non ricordo chi fosse né di averlo più sentito da allora. Questo luogo aveva una veduta magnifica, la valle era proprio sotto i nostri piedi e il panorama che si creava affascinava i miei occhi di fanciulla. A pochi passi si stendeva una pineta a perdita d’occhio e il paese più vicino era a venti minuti in automobile da noi. Un luogo pacifico e isolato.
Sforzando il ricordo mi sembra che un giorno durante quella vacanza abbiamo raggiunto il paese accanto. Era sera e nel luogo si respirava aria di festa. C’erano festoni, danze e intrattenimento di ogni tipo. Mi persi nella folla giocando con dei bambini e i miei genitori faticarono a ritrovarmi. Un individuo, un uomo credo, notò il mio spavento e venne in mio soccorso. Mi aiutò a ricongiungermi con i miei familiari che mi davano oramai per dispersa. Ora che forzo la mia memoria con più energia, mi pare fosse un clown.
Mi ricordo che mi stette simpatico da subito, giocammo insieme per tutta la sera. Mi accorsi che attirava intorno a sé tutto un pubblico di miei coetanei, ogni bambino era attratto dalla sua esibizione. Era buffo, come ogni pagliaccio di mestiere. Non fu l’ultima volta che lo rividi, ma fu l’ultima che lo incontrai nel paese. E qui il ricordo si fa confuso: c’è una pigna intagliata sul comodino accanto al mio letto e il clown che mi legge un racconto prima che io mi addormenti.
Le cose non andarono così, tutto comincia a tornare alla foce della mia memoria. Conobbi il pagliaccio il secondo giorno che arrivammo alla baita. Stavo vagando lungo i sentieri della pineta e ad un tratto una pigna mi cadde in testa. L’urto non mi fece male, ciò nonostante cominciai a piangere, un lamento isterico. E quell’uomo allora arrivò in mio soccorso, colse la pigna da terra e mi guardò con occhi gentili. Mi disse che la pigna non aveva intenzioni scortesi, che aveva scelto me per un motivo che nessuno avrebbe saputo spiegare e che nascondeva dentro di sé una sorpresa che solo io potevo apprezzare. Si mise ad intagliarla davanti a me, trasformandola in una magnifica opera d’arte e me la donò.
Lo ringraziai come i miei genitori mi avevano insegnato a fare, ma infrangendo allo stesso modo la prima regola. Appena diedi le spalle a quello sconosciuto sentii una forte pressione in testa e svenni. Mi risvegliai legata con delle corde usurate avvolte intorno ai polsi, consumate da ogni vittima che deve avermi preceduta. Cercai di urlare più forte che potevo, sforzai i polmoni all’estremo nel tentativo di chiedere aiuto, ma un lembo di cotone vanificava ogni mia possibilità. Ero sola, in quella stanza umida e fetida, il legno era pregno di ogni scena aberrante che sia successa tra quelle quattro pareti. Cercai di dimenarmi con ogni brandello della mia forza per liberare le mani dalla presa salda di quelle corde logore, nella speranza che non avrebbero retto al mio desiderio di fuga.
L’uomo entrò, non portava più il trucco da pagliaccio e gli occhi gentili si erano tramutati in quelli di un predatore. Percepivo il suo sguardo percorrermi il corpo, assaporare ogni singolo tratto della mia nuda pelle, idealizzare quel momento e scolpirlo nella sua memoria. Passarono ore senza che lui smettesse di fissarmi, nel frattempo aveva adagiato sul comodino di fianco al letto la mia pigna intagliata e aveva impugnato un libro di racconti. Iniziò a leggerli. Trascorse ancora un po’ di tempo prima che la sua fantasia si impossessasse di lui, e l’immagine che lo ossessionava si tramutò nella realtà più traumatica che io abbia mai vissuto. Si avventò sul mio fragile corpo, dilaniò i pochi vestiti che mi erano rimasti addosso e mi privò della mia innocenza. Io lottai con tutta me stessa, ma più lo facevo più lui provava piacere. In quel momento svenni, la seconda volta di quel giorno.
Al mio risveglio era mattino, i raggi del sole che albeggiava mi svegliarono. Ero all’inizio della pineta, a pochi passi dalla baita. Ricordo che raccontai l’accaduto ai miei genitori e loro riportarono la vicenda alle autorità del paese limitrofo. Tutti marciarono nella caccia al colpevole, ma non si trovò traccia né dell’uomo né della dimora della mia prigionia dove mi fece vittima, dove persi la mia felicità.
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