La coperta di velluto blu

in Discovery-it4 years ago

Questo racconto è stato scritto per partecipare a The Neverending Contest n°134 S4-P7-I3 di @storychain sulla base delle indicazioni di @clifth
Tema: Velluto a coste
Ambientazione: Tempio

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Michal Osmenda, CC BY-SA 2.0 - via Wikimedia Commons

La coperta di velluto blu

La vita di Sole non era stata facile, ma adesso che aveva un lavoro soddisfacente nel centro di Parigi, aveva sposato Jacques e la loro bimba stava per avere un fratellino, la donna guardava con occhi diversi al passato: emergevano strani ricordi in contesti dai contorni velati e dalla lingua lontana, nuove domande insediavano risposte consolidate dagli anni e sogno e realtà sfumavano in modo del tutto indefinito l’uno nell’altro.

Isabelle si avvicinava ai cinque anni, l’età dei primi ricordi di Sole bambina: forse guardando sua figlia rivedeva in lei un po’ di se stessa; forse invece quella vecchia foto vista un mese prima a casa di sua madre aveva aperto un antico e polveroso cassetto dei ricordi.
L’aveva osservata solo pochi istanti: aprendo uno sportello era caduta giù da sotto una logora coperta di velluto a coste blu, ormai fragile come una ragnatela, di cui sua madre non si era però mai voluta disfare perché quando Sole era piccola la usavano sempre nei loro giochi ed era legata ai loro ricordi più belli. La foto ritraeva lei bambina, avvolta nella coperta di velluto blu, in braccio a sua madre molto giovane e molto accigliata, che la stringeva a sé col cipiglio protettivo di una leonessa. La sua attenzione, però, era stata catturata dallo sfondo della vecchia fotografia, che mostrava un meraviglioso tempio greco antico circondato da antiche rovine che spiccavano bianche nel blu della notte stellata.

Qualcosa di dolceamaro, vedendo la foto, si era risvegliato in lei, ma non aveva fatto in tempo a chiedere spiegazioni alla madre che quest’ultima, notando il reperto, glielo aveva strappato di mano frettolosamente, quasi con violenza, e non c’era stato verso di prendere l’argomento. Avevano litigato, perché sua madre Rosa non parlava mai volentieri dei primi anni di Sole e delle loro origini e un velo di mistero avvolgeva gli anni precedenti al loro arrivo a Parigi; in cambio aveva costruito per lei delle bellissime storie con cui confonderle i ricordi e colmare le lacune, storie che poi aveva iniziato a illustrare con gli acquerelli e vendere a una casa editrice francese di libri per bambini. Grazie a quelli aveva potuto lasciare i tre lavori da cameriera e colf che faceva per mantenersi nella costosa capitale e aveva potuto dare finalmente una vita meno disagiata a sé stessa e alla sua bambina, ormai adolescente.

Sole ricordava bene e con grande gioia i giochi che la mamma inventava per lei e di cui la vecchia coperta blu aveva spesso fatto parte, diventando all’occorrenza il lungo manto di una regina, un tappeto volante, la tenda degli indiani, le ali di una fata, il vestito da sera di una star, un magnifico cielo stellato, la capsula spaziale per andare su altri pianeti, l’oceano da solcare su una nave pirata in cerca di tesori o sotto il quale immergersi come sirene alla scoperta delle buffe creature sottomarine. Le larghe coste del velluto avevano a volte fatto addirittura da ippodromo per soldatini e animaletti coinvolti nelle corse o da siepi di labirinti minuscoli dove perdersi inventando storie sui personaggi che vi si avventuravano. Quella coperta magica le aveva protette dal freddo e dalla tristezza quando erano arrivate a Parigi povere e sole e aveva creato un legame speciale ammantando di spensierata felicità ricordi grigi di incertezza e indigenza sullo sfondo di stanze gelide e spoglie.

Sole non ricordava da dove la coperta venisse: era sempre stata con loro da che ne aveva memoria. Vedersi avvolta in essa in quella foto così vecchia, scattata in un luogo che nemmeno ricordava ma che sentiva familiare le aveva evocato, durante quell’ultimo mese, immagini sopite sul fondo della sua coscienza: un divano, un cucinino, una culletta accanto a un lettone, una mano pelosa, odore di vino e di fumo, urla, la mamma che correva di notte con lei in braccio, la dottoressa dell’ospedale, un sorriso, una donna vestita di nero, odore di borotalco. Legate ai flash che si affacciavano a tratti nella mente di Sole, le emozioni si succedevano appiccicose e sgradevoli riportando confusamente a galla dolore, paura, sgomento, fame, sollievo, serenità, risate e un triste addio.
Portando lieve la mano alla pancia e accarezzando il bambino in arrivo, Sole cominciava a capire, ma tante cose restavano oscure.

<<Mamma, io devo sapere.>> le disse un giorno, presentandosi all’improvviso a casa di Rosa.
<<Entra: ti aspettavo.>> la accolse Rosa col viso velato da un sorriso amaro.

Sulla poltrona del salotto Rosa aveva messo la loro vecchia coperta, mentre sul tavolino lì accanto aveva disposto alcune foto, dei documenti ingialliti, un collier d’oro anni ’80.
<<Questo è tutto ciò che resta delle nostre origini, figlia mia, da cui ho cercato di proteggerti fino a oggi. Come sai, tuo padre morì poco dopo che rimasi incinta. Ci amavamo molto e lui ti amò dal primo momento in cui iniziasti a esistere: questa collana è l’ultimo regalo che mi fece quando seppe che ero incinta: mi disse che indossandola ero luminosa e che in grembo portavo il sole che avrebbe illuminato le nostre vite. Non te l’ho mai mostrata perché temevo che mi avresti giudicata male sapendo che non l’avevo venduta quando ne avevamo bisogno e tu eri bambina, ma vedi: non ho potuto. Era tutto ciò che ci rimaneva di lui, non avevamo altro.

Per i miei genitori, contadini ignoranti e gretti, eravamo solo nuove bocche da sfamare e mi trovarono presto un nuovo marito molto più vecchio di me, figlio violento di un commerciante iracondo. Non fu un matrimonio felice, ma di necessità; finché non ti mancava nulla, però, io pativo in silenzio. Grazie a lui iniziai a conoscere un mondo diverso, una vita meno misera, qualcuno di “città”. Andavamo spesso ad Agrigento per lavoro: ero bella ed educata e amava sfoggiarmi come fossi un trofeo alle cene con altri commercianti o possidenti. Fu lì che, dalla bocca di altre mogli che spettegolavano del bel mondo, sentii parlare per la prima volta di assistenti sociali: “dei mostri da cui stare ben lontani”, perché rovinavano le famiglie impicciandosi di tutto senza mai farsi gli affari loro. Un nome rimase attaccato alle mie orecchie: Isabella Russo, via Maestranze 7. Non so perché registrai questo nome: immagino come monito per rimanerne sempre alla larga, dato che era parere comune che i genitori avessero ogni diritto sullo stile educativo dei figli, e i mariti lo avevano certamente sulle mogli, mentre “quella meretrice della signora Russo” non condivideva lo stesso punto di vista.

Quando avevi cinque anni, mia piccola Sole, mio suocero morì lasciando tanti di quei debiti nella società di famiglia che suo figlio pensò bene di far scontare a me l’ammanco, come se il giallo dei miei lividi potesse trasformarsi nell’oro che mancava dalle casse del suo defunto padre. Beveva e mi picchiava. Il suo interesse verso di te era sempre stato minimo, ma un giorno, mentre eravamo in albergo ad Agrigento, interrompesti piangendo nel sonno i suoi brutali rituali e si lanciò su di te per colpirti. Ti feci scudo col mio corpo, mentre tu ti riaddormentavi; poi, quando quell’orco si gettò sul letto intorpidito dal vino, ti avvolsi in questa coperta di velluto blu e correndo nella notte ti portai in via Maestranze 7. La donna che mi accolse era “il mostro” in persona, Isabella Russo, e la prima cosa che fece fu medicarmi le ferite. Non mi chiese niente, disse solo che l’ospedale parla, e Agrigento è un posto piccolo quanto un paesello e tutti sanno tutto di tutti. Mi nascose alcuni giorni, poi fece in modo da procurarmi un po’ di soldi e un biglietto di sola andata per la Francia. L’ultima notte trascorsa ad Agrigento ti avvolsi nella coperta e ti portai alla Valle dei Templi, il posto più bello che si possa immaginare. Volevo vedere tutta quella bellezza misteriosa per l'ultima volta, e avendo il Dio cristiano fallito miseramente, forse volevo anche invocare su di te e su di noi la protezione di qualsiasi divinità benigna potesse udirmi da quel luogo sacro. Dormivi, ma non importava.
Giravo per i templi sotto un cielo così fitto di stelle da sembrare quasi giorno. Ti svegliasti vicina al tempio della Concordia, e un po’ confusa mi chiedesti cosa stavamo facendo. Ti dissi allora che stavamo facendo un gioco nuovo: tu eri la dea del tempio e una dea era come una principessa e una fata messe insieme. Con la coperta approntammo un mantello, poi un altare per pregare, poi un rifugio. Fu quella notte, Sole, dentro quel tempio, con questa vecchia coperta rubata ad un albergo, che nacquero i nostri giochi e poi i miei acquerelli. Fu quella notte che dentro di me rinacquero la speranza e la forza di tornare a vivere per te e cambiare per sempre la nostra vita.

Lasciai quel posto magico ma così doloroso per sempre e senza rimpianti. Nessuno ha mai saputo che fine avessimo fatto né che Isabella ci aveva aiutate: quell’uomo era troppo violento e le avrebbe di certo fatto del male. Ogni tanto lei mi scriveva riferendomi le voci che giravano sulla nostra scomparsa: c’è chi giura di avermi vista in un bordello di Palermo, chi dice che ti ho venduta agli zingari e sono scappata con un amante e chi sostiene che mio marito ci ha trovate su una nave per Genova e ci ha annegate. Lui è morto, ormai, saranno almeno dieci anni, ma io sento ancora il rancore e la paura di allora, e temo quasi che ti possano fare del male come se tu fossi sempre quella bambina di cinque anni da proteggere col mio corpo e non la donna forte e indipendente che sei diventata.

Quel passato che con le mie storie e i miei giochi ho cercato di mascherare, cambiare, seppellire, ha fatto da concime per il fiore che sei diventata, ma non è sparito del tutto: guarda il tuo lavoro di assistente sociale, pensa al nome di tua figlia Isabelle. Sei cresciuta forte e buona e tutto quel dolore lo hai preso dentro di te e lo hai trasformato in qualcosa di stupendo. Lo sapevo, me ne accorgevo, ma rimandavo il momento di raccontarti tutto rievocando un dispiacere che nessuna di noi due meritava. O forse mi sbaglio e ho solo cercato di proteggere me stessa dal senso di colpa per ciò che sarebbe potuto succedere, dal dolore per ciò che non ho potuto evitare, dal dispiacere di quello che non ti ho potuto dare.
Ecco: adesso sai ogni cosa, figlia mia.>>

Sole rimase a lungo in silenzio, pensierosa, finché il gatto di sua madre le sfiorò le gambe con la coda, in cerca di coccole. Si riscosse allora da una sorta di torpore che aveva cullato i suoi ricordi e alzò gli occhi su quella donna che le aveva fatto da madre e da padre, che le aveva mostrato sempre e solo amore e sorrisi anche nei momenti più duri e dolorosi della sua vita, che l’aveva protetta e cresciuta ricolma di felicità. I suoi occhi incontrarono quelli ansiosi di Rosa, che erano tesi e inquieti per quel che poteva pensare la figlia dopo la sua storia rivelatrice. Sole provò una fitta alla vista di quello sguardo angosciato, pensò che la madre non meritava mai più un solo istante di sofferenza in questa o nella prossima vita. Si alzò di scatto e corse ad abbracciarla di un abbraccio caldo, lungo, intenso e sublimato da un sentimento di amore potente, sacro e antico che sempre le avrebbe legate, come in quel tempio lontano, in quella notte stellata, sotto una coperta di velluto blu.

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