Silvia

in Discovery-it5 years ago (edited)

Questo racconto è stato scritto per partecipare a Theneverendingcontest n° 80 S5-P6-I2 di @storychain sulla base delle indicazioni del vincitore precedente @kork75

Tema: Ansia
Ambientazione: All’aperto

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Pixabay License

Silvia

Ore.
Giorni.
Mesi.
Anni, forse.
Il tempo non aveva alcun senso, e i sensi non avevano più un tempo.

Per quanto tempo era rimasto nascosto dal mondo, sepolto fra polvere e i fiumi di alcol?
Non ricordava, non sapeva.
Aveva dimenticato chi era, e anche gli altri, esclusi, rigettati, mandati in malo modo, si erano ormai dimenticati di lui.

Tutti tranne sua sorella Silvia, che continuava a portargli da mangiare, a pulire il suo vomito, a comprargli l’alcol, senza mai una parola di rimprovero, semplicemente assecondandolo. L’unica a capire il suo dolore, l’unica a non giudicarlo.
Tredici anni meno di lui, la stessa distanza che Silvia aveva da suo figlio Pietro.

Anche lei lo aveva tenuto in braccio, lo aveva cullato, lo aveva viziato come solo una zia adolescente sapeva fare, come lui fratello adolescente aveva fatto.
I loro legami erano oro, acciaio, granito, lava.
Il loro dolore adesso era puro inferno.
Quella moto, quella maledetta moto.
Era tutta colpa sua.
Sua e della pioggia e dei suoi sedici anni.
Ma soprattutto sua.
Era presto per dargliela.
Sua moglie aveva ragione.
Aveva sempre, maledettamente ragione.
Anche ad andarsene lontano da lui ne aveva avuta.
Non riusciva a guardarlo senza astio e disgusto.
Poi un giorno non c’era più.

Ma questo era stato dopo.
Dopo Ore.
Giorni.
Mesi.
Anni, forse.
Non ricordava, non sapeva.

I pensieri erano sterili, fermi, ciclici, uguali a se stessi. Continui e tormentosi.
I ricordi erano solo frammenti, brevi pause fra uno stato di incoscienza e l’altro, tra una sbornia e l’altra, nel buio di una stanza in cui persino la finestra veniva aperta e chiusa da Silvia, e se era bello e lei non veniva restava chiusa, e se era brutto e lei la dimenticava aperta pioveva dentro.

Alla porta bussavano, bussavano forte, voci indistinte.
Lui non apriva mai, ma tanto non bussava mai nessuno.
Silvia aveva le chiavi.
Nel torpore e nel buio sentì la porta aprirsi.
In seguito si ricordò di aver pensato che era strano, che Silvia non bussava mai.
Rumori in cucina, imprecazioni.
Nel dormiveglia, la voce di un uomo.
<<Sei sveglio, Carlo?>>
Mugolii.
<<Ti lascio un biglietto, così poi ti ricordi di quello che sto per dirti. Sono Mauro, il marito di Silvia. Tua sorella non verrà più qui da te, almeno per un po’. Ha il cancro. Deve curarsi. Mi ha pregato di portarti il bucato e la spesa di questa settimana, ma non metterò una seconda volta piede in questo porcile, quindi questa è l’ultima che avrai. Se le vuoi davvero bene quanto lei ne vuole a te e ne ha voluto a tuo figlio alzati, lavati, torna ad essere un uomo e poi va da lei. Addio cognato.>>
E così dicendo, Mauro uscì.

Silvia.
Cancro.

Passarono ancora ore, o forse giorni, mesi, anni.
Lentamente, Carlo mollò la presa dal collo di una bottiglia di vodka ormai vuota. Lentamente si trascinò fino al bagno, strisciando, riempì la vasca e vi si immerse. Afferrò il rasoio e se lo portò alla gola, poi ai polsi.

Silvia.

Lo scagliò lontano, sul pavimento, e perse conoscenza.

Quando rinvenne, l’acqua nella vasca era già fredda, ma la lunga sbornia durata ore, giorni, mesi, o forse anni iniziava a sparire, lasciando dolore, tremori e nausea. Lentamente, con cautela, Carlo si alzò, e reggendosi al lavandino si guardò allo specchio per la prima volta dopo ore, giorni, mesi, o forse anni.

Afferrò di nuovo il rasoio.
Silvia.
Silvia.
Silvia.
Le mani erano scosse da tremiti tali che rinunciò a tagliare alcunché.
Si vestì.
In cucina, il caos.
Sul tavolo, il caos.
Nel frigo, il vuoto.
Solo pochi pacchettini di pasti già porzionati denotavano le premure di sua sorella.
Silvia.
Il cancro.
Afferrò una banana e la ingoiò quasi senza masticarla. Continuava a tremare, doveva essere l’astinenza. Aprì una birra e ingollò anche quella. Le scosse alle mani e al corpo pian piano si calmarono. Si vestì col bucato fresco che profumava di buono, che sapeva di Silvia.

Cercò le chiavi di casa. Il portafogli.
Quei gesti automatizzati da anni di routine tornarono subito alla sua mente.

Barcollando, aprì la porta di casa e venne inondato dalla luce. Abbagliato dal sole, stordito dai rumori di una strada ingombra di caos e di gente, lo stomaco di Carlo iniziò a contrarsi spasmodicamente, il respiro divenne rapido e ansimante, il cuore talmente veloce che quasi gli usciva dal petto.
Attanagliato dalla nausea, vomitò in un angolo. Si asciugò la bocca col dorso della mano, e mentre lo faceva sentì di nuovo, nella manica della camicia pulita, l’odore di sua sorella.
La testa gli scoppiava, era malfermo sulle gambe.
L’ansia di non farcela lo divorava, ma l’ansia per le condizioni di sua sorella lo aveva rimesso in piedi.

Respirò a fondo, confinò il dolore, dominò l’ansia e mise un piede d’avanti all’altro, camminando verso sua sorella, mentre il mondo, pur continuando a vorticare attorno a lui, assumeva di nuovo un posto.
Silvia.
Aspettami.
Arrivo.

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