Gerardo ricorda e ci racconta come si faceva il pane una volta, in paese. Un affresco riuscitissimo di luoghi, persone, antichi saperi…
Sto raccogliendo i suoi racconti, le sue poesie, il vocabolario dei termini dialettali che ha scritto, i suoi disegni e le sue vecchie foto, per farne una pubblicazione.
I suoi ricordi, sono la nostra storia. La nostra memoria.
Le pagnotte erano almeno sette, otto chili di pane ammassato e lievitato in casa e poi cotto nel forno a legna del paese. Fresco, fragrante, genuino e croccante per giorni e giorni…
Al mio paesello, Rovere, abbarbicato tra le montagne della Provincia di L'Aquila, il "Forno del Comune" era a pochissimi passi da casa mia.
Ma non c’era il fornaio! Il lavoro di fornaio lo svolgeva una donna, che accendeva il forno ogni qualvolta c’erano da cuocere almeno 60 pagnotte o filoni. Così si chiamavano. E si chiamano ancora. Ma erano grandi e pesanti tre volte tanto!
In un unica infornata si cuocevano circa 500 Kg di pane!
Le donne che dovevano panificare si “associavano": le soccie, come prescrive il normale contratto verbale di soccida. E, di volta in volta, conferivano alla fornaia, la sera prima della cottura, la legna per scaldare il forno in proporzione al pane che ognuna doveva cuocere.
La legna, di uso civico, a pezzi lunghi circa un metro (120 cm, prescriveva la norma!), e venduta al bosco a canne (circa 40 quintali, non stagionata e con un limite massimo di 3 canne a famiglia) veniva raccolta dalla fornaia passando casa per casa. O, meglio, legnaia per legnaia. E trasportata a mano per le viuzze del paese, tutte in salita.
Il forno era situato nella parte più alta del paese, ricavato nel piano terra di un edificio che faceva parte della cinta muraria fortificata medievale. Per noi del paese era sotto la casa de Tittarelle…
La preparazione del pane avveniva in casa, il pomeriggio del giorno prima, con farina integrale, con il cruschello, acqua della fontana pubblica e patate lesse e schiacciate raccolte negli avari campi della zona, dove ogni famiglia ne coltivava una certa quantità per uso famigliare.
Le patate, una volta raccolte, subivano una cernita sul campo, Le più grandi venivano conservate in cantina per uso alimentare e dovevano bastare tutto un intero anno. Fino al raccolto successivo… Quelle piccole, li patanille le chiamavamo noi, si consumavano man mano per darle in pasto al maiale allevato ne la stalletta che ognuno aveva sotto casa.
Il grano per la farina era quello duro, coltivato in loco da ogni famiglia per il consumo famigliare, su magri terreni a 1300 metri di altitudine. Veniva macinato nel mulino ad acqua di San Potito. E trasportato a dorso d’asino. La farina veniva conservata in sacchi di iuta bianchissimi in locali bene asciutti all'interno di casa.
La farina veniva usata anche per fare la pasta in casa o dolci speciali, setacciata e separata dalla crusca.
Dal grano, se non si era ben conciato prima al crivello (lu pellicce, in dialetto) e non era stato ben diviso da altri semi (lu capicciame, in dialetto) derivanti dalle piante infestanti il terreno di coltura durante la mietitura, si otteneva una farina che conteneva anche la macinatura di semi di gramigna, ajetto, orso, avene e fieccia …dei pallini neri…
Tutto finiva, naturalmente, nel pane integrale. E si mangiava con piacere ed appetito.
Il pomeriggio tardo del giorno prima della cottura, si procedeva all’ammassatura sulla spianatora mischiando e facendo amalgamare ben bene i genuini ingredienti. Impastando anche per oltre un’ora, con la forza delle braccia, l'amore e la perizia delle nostre mamme. Con l'aggiunta del lievito madre, nella giusta quantità.
E il lievito madre? Ogni donna durante la preparazione dell'impasto, ne poneva una piccola quantità in una capiente ciotola di terra cotta per farne il lievito madre. Che veniva prestato alla vicina di casa che doveva panificare. E questa, a sua volta lasciava altro lievito da prestare ad un’altra vicina… E, così facendo, a turno, nel giro di un paio di settimane il lievito madre tornava nelle mani di ogni mamma fornarina.
L'impasto, una volta completato, veniva posto in tini di legno molto ampi e coperti con dei panni bianchi, molto spessi.
I tini venivano posizionati, per tutta la notte, nel luogo più caldo della cucina, di solito accanto al camino lasciato acceso, per consentire la lievitazione naturale dell’impasto. Riscaldamenti, in casa, non ce n’erano…
All'alba la panificatrice di casa, la carissima e amata mamma, dopo una levataccia, tirava fuori dai tini l'impasto ricresciuto (lievitato) e preparava sulla spianatora le pagnotte o i filoni. La forma, rotonda o allungata, dipendeva dalla larghezza della tavola di trasporto al forno. E dalla capienza della madia dentro cui conservarlo, una volta cotto, per almeno due settimane.
La mattina presto, dunque, la mamma usciva di casa con la tavola e il suo prezioso carico da cuocere. Se la caricava in equilibrio sulla testa interponendo, tra tavola e capelli, a mo' di ammortizzatore, un canovaccio arrotolato con maestria, da noi chiamato mappina o cincia. E raggiungeva il forno, attraverso le viuzze dal paese. In inverno ostruite anche da oltre un metro di neve…
All'interno del forno tutte le tavole venivano poggiate su delle apposite rastrelliere: mensole in ferro, più anticamente in legno, infisse nei muri. E la fornaia, con l'aiuto delle presenti, volontarie a turno, in un ambiente con un caldo infernale e tanto fumo da tagliare con una lama, svuotava la fornace di cottura, in mattoni di cotto ed a forma di cupola perfetta, dalla cenere e dal carbone residuati dal fuoco di riscaldamento, acceso almeno quattro ore prima.
I vari pezzi di impasto preparati, che ognuna segnava sopra con un taglio particolare di riconoscimento, venivano infornati. Venivano posti sulle antichissime lastre di cotto, alla debita distanza l'uno dall'altro per lasciare spazio ad ogni pezzo per l'ulteriore crescita durante la cottura. In modo da impedire che, accostandosi ed attaccandosi tra di loro, la cottura fosse omogenea e la crosta fosse fragrante e croccante su tutto il pezzo.
La bocca del forno veniva chiusa e si aspettavano anche 2-3 ore perché la cottura fosse per completata. E, a cottura ultimata, il pane veniva sfornato e riposto su ogni singola tavola che ciascuna trasportava immediatamente a casa per preservarne la fragranza.
Durante il trasporto verso casa, le mamme fornarine regalavano un pezzo di pane caldo a chiunque lo chiedesse, soprattutto ai bambini, alzando il braccio e spezzando un pezzo di crosta con la mano da una pagnotta. Per noi bambini e ragazzi era una vera festa!
Una volta a casa il pane veniva riposto nella madia, il mobile per il pane, di ottimo legno e di buona fattura, presente in ogni abitazione. E veniva coperto da uno spesso panno bianco. Il pane si conservava lì. E si consumava anche lungo il periodo di un mese, se necessario. A secondo delle esigenze e delle disponibilità della famiglia.
Prima dell’infornata delle pagnotte e dei filoni, si infornavano piccole quantità la pizza-pane, che cuocevano in pochissimi minuti. Una parte di pizza veniva condita con pochissimo olio e si mangiava all'istante. Qualche altro pezzo di pizza-pane, invece, veniva posto all'interno di teglie bassissime, simili a quelle in uso nelle moderne pizzerie al taglio, e venivano conditi con passata di pomodoro e qualche acciuga sottolio.
I testi, o teglie, erano il lamiera. Noi dicevamo di latta. Ed erano realizzate con maestria dall'infaticabile Zio Guiduccio. Lo zio …di tutti. Uomo avaro di parole, ma che con il suo sguardo espressivo ed intelligente ti parlava direttamente al cuore.
Realizzava i testi tagliando e piegando i fogli di latta, la lamia o lamietta, che gli avanzavano da altre lavorazioni. Lo faceva nella sua bottega. Il suo laboratorio artigianale sotto casa, spesso anche gradevole ricovero nei brevi pomeriggi invernali, nevosi e freddi, per noi ragazzini, che seguivamo curiosi le sue mani creatrici che, con particolari attrezzi, si destreggiavano sulla materia.
Sembrava, quella, una vera scuola per giovani apprendisti! …anche se noi imparavamo assai poco…
A volte la latta era ricavata dal taglio dei grossi barattoli di recupero, dallo scarto delle botteghe di alimentari. Quelle di Santina e di Crescenza. Che avevano contenuto il concentrato di pomodoro. La conserva, che si vendeva sfusa, ad etti.
Qualcuno, una volta aperte le porzioni di pizza ancora calde in due, le riempiva con il companatico portato apposta da casa: prosciutto stagionato in cantina e proveniente dalla mattanza in loco del maiale allevato nella stalletta sotto casa. O formaggio di mucca, o pecora, sempre rigorosamente prodotto in casa propria.
E non era raro veder circolare una brocca di coccio, non smaltato, con del vino rosso. Quello, va detto, …rigorosamente di pessima qualità! L’Acitella, proveniente dai Paesi della piana. Da Celano e dintorni…
Anche il forno aveva il suo momento di .massima notorietà… La festa grande al "Forno Comunale" era durante il periodo pre-natalizio e pre-pasquale, quando tute le mamme erano impegnate nella preparazione di pizze e dolci speciali.
Ricordo bene un pullulare di ragazzotte che, nella piazzetta antistante il forno e nei vicoli attigui, rompevano e sbattevano, dentro enormi insalatiere in porcellana bianca, dette spasette, uova dal pollaio di famiglia, per preparare il famoso Pan di Spagna.
Pan di Spagna da riempire successivamente, a casa, con strati di crema e di cioccolata, per elaborare l' altrettanta famosa Zuppa Inglese!
Era quella un'occasione irrinunciabile per i ragazzi, di …sbirciare. E, per le ragazze, di farsi sbirciare dal ganzo di turno.
Il compenso al duro e sudato lavoro della fornaia avveniva in denaro: un tot a chilo di pane cotto, pesato rigorosamente con la …bilancia ad occhio!
Ma questo …negli ultimi tempi! Fino alla fine degli anni '40 il compenso avveniva in natura: con alcune pagnotte di pane, che la fornaia rivendeva poi a pezzi a quelle famiglie che, per vari motivi, persone troppo anziane o cosi dette aristocratiche, non panificavano in proprio.
L'amico Paolo Camiz, gradito ospite con la sua famiglia nel mio paese nel periodo della seconda guerra, mi ha ricordato de lu pizzille: un po’ di impasto che veniva dato ai bambini, perché ci facessero dei pupazzetti da infornare insieme alle grandi pagnotte.
Ricordo i nomi delle ultime "fornaie": Zia Laurina, Zia Maria, Zia Virginia, Zia Nunziata e Zia Concetta, aiutata da Mafalda…
Nei pomeriggi e nelle lunghe e fredde serate invernali il "Forno Comunale", dopo la panificazione, diventava il luogo di intrattenimento dei ragazzi di qualche anno più grandi di me. C'erano Mimmo, Memmo, Tonino. Checco, Sesto, Pasquale, Chiavarrine, Melone, Berardino, Carlo de Genoveffa...
Ricordo in particolare quella volta che, in un testo con le patate, avevano impastato e messo a cuocere il …il culo di Alfredina! Stesse forme, pronte ad esser mangiate. Ragazzacci…!! Io (non era mai accaduto), fui mandato via. Troppo piccolo. Non capivo, non partecipavo… E avrei potuto raccontare l’episodio fuori dal losco giro!
Unico posto veramente caldo del paese, i giovanotti, la sera, si riunivano lì. Al lume di candele, per giocare a carte: a zicchinetta e a sette mezzo. Usando per le giocate vecchi bottoni, ognuno dei quali con un valore rispetto agli altri, attribuitogli in base alla grandezza, alla forma, alla qualità, al colore ed alla rarità del pezzo.
Erano ottime occasioni fare qualche chiacchiera sulle loro coetanee, Marcella, Giustina, Rossana, Nice, Brunetta, Lucia, Teresa, Alfredina, Adriana... Per fantasticare sulla loro bellezza e le loro grazie…
Tutto questo merita però un lungo capitolo a parte!
I racconti precedenti:
I miei primi sci
Polenta e panuntella. Due pietanze, due ceti
Il nostro Natale
Primo amore, prima bugia…
Due cari compagni di giochi
Uno scippo d’altri tempi
Serate di vita intorno al camino
In ricordo di due bravi ragazzi
Presepe vivente
Scene di guerra
Le canne di una volta…
Una salsiccia di legno
L’osteria
Amore a prima vista
Guerra e solidarietà
Io mi chiamo G. Anch’io mi chiamo G…
La ‘ncotta
Pellegrinaggio al Santuario della SS: Trinità
Ricordo di un nubifragio
Il racconto le foto di Gerardo sono pubblicati con il consenso della moglie. Le altre foto sono tratte dal web e sono libere da copyright
Bellissimi ricordi, un patrimonio che va assolutamente tramandato. Ricordo ancora mia nonna ed il buonissimo pane che ha fatto in casa praticamente fin quando non se ne è andata. Quel pane aveva un sapore di cose buone che, ogni volta, pareva di mangiare qualcosa di speciale (e speciale lo era davvero!) ^_^
Vero?!!...
Ecco perchè al pane di oggi manca il vero gusto..manca il lievito naturale, la semplicità delle persone, l'amore per ciò che si fa.. trasformando una semplice "operazione" in un momento di festa!Ogni volta che compro pane, mi viene automatico spezzare il bordo, pensando proprio a quei nostalgici momenti di una volta.
E già... :)
Finisco di leggere nel primo pomeriggio questo tuo ennesimo e stupendo racconto delle nostre tradizioni, non volevo ricadere sotto la mannaia pomeridiana della bandwidth, ma sono arrivato circa a metà, e quello che ho letto finora non fa altro che confermare che mi trovo davanti ad uno spaccato della nostra cara Italia contadina, di tanti anni fa, descritto in maniera sublime ed ineccepibile dalla tua "penna", veramente bravo
Un lavoro a due mani: Gerardo ed io... Grazie!
Di nulla, pura verità!!
:)
Ciao Marco, ma lo sai che mi hai ricordato che quando ero piccolo, in un paesino nei dintorni di Bari dove viveva una mia zia (Turi), si faceva ancora come racconta Gerardo?
C'era il Forno comune dove anche mia Zia portava il pane a cuocere.. parliamo della metà degli anni '80, quindi non epoche così lontane, ma ho questo ricordo del pane che sapeva di legna.. un sapore che questo post mi ha riportato alla memoria!
Fantastico!
Ma andiamooo...!!
Very good story&blog thanks for shareing
Thank you
Really nice one , sir
Thank you, sir!
che dolce post
Mi è piaciuto leggerlo mentre mi diverto a mangiare un pane cotto in un villaggio.
Mi rimproverava un odore di pane preferito che mia nonna poteva solo cuocere ..
Grazie per il tuo fantastico post..
:)
la storia è molto buona mi piace davvero..
:)
Italy is inventions of many things.
It is... ;)
Loved it. B&W photos adding charms to the writeup.
Photos of those times...