L'Orrore di Nazareth - racconto natalizio di orrore cosmico [ITA]

in #ita7 years ago (edited)

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Il viaggiatore che nella Galilea meridionale imbocchi la strada che lascia alla sua destra il Monte Tabor, e al di là di esso il lago di Tiberiade, dirigendosi in direzione dell’antica e peccaminosa città di Sepphoris, si trova ben presto in una regione brulla e riarsa dal sole, corrugata in colline ricche di calanchi, precipizi e grotte naturali, che in tempi immemori hanno dato rifugio a stirpi dimenticate di uomini arcaici dalle fattezze ferine e dal comportamento primitivo. Le loro ossa deformi restano celate in fondo agli oscuri budelli del suolo, ormai incastonate nella pietra come cicatrici di colpe dimenticate nell’anima stessa di queste terre. La strada polverosa si inerpica a fatica tra pareti di roccia punteggiate di fichi e olivi dai tronchi altrettanto contorti, ai piedi dei quali giace un fitto intrico di cespugli secchi e spinosi.

Nonostante l’aridità di questi luoghi e l’onnipresente dardeggiare infuocato di un sole tirannico, che non le risparmia tuttavia da gelide e ventose notti, esse sono densamente coltivate e non c’è angolo che non sia scavato, modellato e lavorato dai suoi abitanti, come le gallerie dei tarli traforano il legno secco di un antico mobile. Vi sono anche molte città e dovunque un gran numero di villaggi densamente popolati da abitanti schivi e furtivi, che strisciano tra i vicoli stretti celando il loro aspetto con ampie pezze di stoffa lacera che avvolgono tutto il corpo e nascondono il volto, lasciando intravedere solo lo sguardo sospettoso e ostile. Il viaggiatore non riceverà facilmente indicazioni od ospitalità presso questa brulicante genia, il cui fare scostante e losco desta inquietudine e un senso di promiscuità con cose da non indagare ulteriormente.

Quando, dopo aver raggiunto la cima di alcune gibbosità giallastre, la strada ridiscende, si può notare che si dirige nel profondo di una conca dall’aspetto claustrofobico che risuona dello stridio sgradevole e innaturalmente potente di miriadi di cicale, una cacofonia incessante che sembra in grado di far perdere il senno. Acquattato in fondo alla conca, si scorge un villaggio dalle case di argilla sbilenche e addossate le une alle altre senza un ordine apparente, con le pareti non a piombo e deformate da convessità simili a tumori. Avvicinandosi, le finestre e le porte di questi tuguri appaiono come vuote orbite e bocche spalancate dietro le quali l’oscurità è interrotta solo sporadicamente da tremolanti e spettrali bagliori di lampade a olio. Allora, anche le brulle asperità delle pareti settentrionali della conca sembrano appetibili rispetto alla prospettiva di addentrarsi in quel grumo di decrepite abitazioni, ma la strada attraversa inesorabilmente l’abitato. È inevitabile affrettare il più possibile il passo, mentre le narici vengono offese da un sentore di muffa e di cloaca che esala dalle case e dai vicoli, finché la strada non inizia nuovamente a salire, innalzandosi al di sopra dei tetti sconnessi, sino a valicare il versante nord della conca e proseguire per Sepphoris. In seguito, talvolta si viene a sapere di essere passati per Nazareth.

I forestieri si recano a Nazareth il meno possibile, oltre che per l’aspetto poco invitante e decrepito del villaggio, forse anche per lo stadio di decadenza nel quale sono precipitati i suoi abitanti, molto più accentuato di quello in cui versano i nativi di altri insediamenti isolati della Galilea. Ormai formano quasi un popolo a sé stante, con evidenti tare ereditarie e segni di degenerazione. La media della loro cultura è penosamente bassa, al punto che è proibito loro leggere le preghiere pubbliche, anche per i pochi tra loro in grado di comprendere la scrittura, perché la pronuncia biascicata, gutturale e confusa risulta quasi incomprensibile alla maggioranza della gente civile. I Farisei sono soliti dire che nessun profeta può provenire da questa zona, e i maggiorenti di Gerusalemme e di tutta la Giudea ritengono ignoranti, rozzi, e persino barbari, gli uomini di Nazareth. Persistono alcuni rami famigliari discendenti dalla nobile stirpe di David, ma sono decaduti e confusi a tal punto con la sordida plebaglia, che ormai solo il nome testimonia la nobile origine che questa gente ha disonorato.

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Fu proprio a Nazareth che l’Angelo fu mandato, per parlare a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di David, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, l’Angelo disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Guardiano è con te”. A queste parole, ella rimase turbata e si domandò che senso avesse un tale saluto. L’Angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso il Tutto-in-Uno e l'Uno-in-Tutto. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Sothoth. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Esterno; il Guardiano della Soglia gli darà la Chiave e la Porta per il trono di David suo padre, e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e sull’Altrove, il suo regno non avrà confini nello spazio e nel tempo.”Allora Maria disse all’Angelo: “Come è possibile? Non conosco uomo”. Le rispose l’Angelo: “Passato, presente e futuro coesistono nel Guardiano, la sua potenza stenderà la sua ombra su di te, anzi l’ha già stesa da prima che tu nascessi. Colui che nascerà sarà dunque predestinato e chiamato Figlio del Guardiano. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile; nulla è impossibile a colui che è il Tutto-in-Uno e l'Uno-in-Tutto”. Allora Maria disse: “Eccomi, sono la Toppa per la Chiave, si dischiuda in me la Porta e avvenga quello che hai detto”. E l’Angelo partì da lei.

In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giudea. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena questa ebbe udito il saluto di Maria, il figlio che le cresceva in grembo sussultò con violenza. Molti in seguito giurarono che il canto delle cicale fosse cessato per un interminabile istante, sostituendo nella cappa di calura malsana del meriggio l’inquietante rumore di fondo con un silenzio tombale ancora più disagevole. Elisabetta emise un grido altissimo, in cui si mescolarono sillabe sconosciute e inumane, e accasciandosi a terra con il volto trasfigurato dal dolore, esclamò: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre della mia Guida venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il figlio ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Guardiano”.

Allora Maria disse: “L’anima mia non teme alcun giudizio degli uomini. Se il figlio che porto in grembo assomiglierà a suo padre, sarà del tutto diverso da ogni immaginazione. Non esiste solo la gente di queste parti…l’Angelo mi ha mostrato cose che nessuno può sognare. Il padre è valente, è il migliore che si possa trovare da questa parte del Giordano. Se sapessi quello che so io delle colline, avresti ancora una conferma ancora più forte delle grandi cose che ha fatto in te e in me il Guardiano della Soglia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.

Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi tornò a casa sua. Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che la Guida aveva esaltato in lei la sua imperscrutabile ineluttabilità, e accesero fuochi sui fianchi scabri delle colline, danzando nudi al chiaro di luna, come seguendo una musica che nessuno poteva udire. All’ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: “No, si chiamerà Yog.” Le dissero: “ Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome”. Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli fece per parlare, ma le labbra si rifiutarono di schiudersi, come se fossero state incollate tra loro. Roteò gli occhi all’indietro, mentre il suo corpo era scosso da tremiti e inarcato all’indietro fino quasi a far temere che si spezzasse. I tendini del collo e degli avambracci risaltavano come corde tese allo spasimo. Gli astanti lo fissavano con terrore, non sapendo cosa fare. Qualcuno, meno abbrutito degli altri, si fece avanti per sostenerlo ed evitare che cadesse, ma improvvisamente Zaccaria si rilassò e, sempre senza aprire le labbra, indicò una tavoletta d’argilla fresca e un calamo che si trovavano su un tavolo lì vicino. Avutele, scrisse: “N’gai, n’gha’ghaa, bugg-shoggog, y’hah; Yog è il suo nome”. Tutti sentirono un brivido gelido correre giù per le loro schiene. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e prese a parlare rivelando antiche conoscenze proibite.

Tutti i loro vicini furono presi da terrore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: “Che sarà mai questo bambino?” si dicevano. E davvero la mano della Guida stava con lui. Zaccaria, suo padre, fu pieno dell’ombra del Guardiano e profetò dicendo:

“Non si deve pensare che l’uomo sia il primo o l’ultimo degli eredi della Terra, né che questo impasto di carne e anima sia il primo a calcarne la polvere. Gli Antichi furono, gli Antichi sono, gli Antichi saranno. Non nelle dimensioni che conosciamo, ma fra di queste, Essi esistono imperturbabili e da noi non visti. Il Guardiano conosce la porta. Il Guardiano è la soglia. Il Guardiano è la chiave. Passato, presente e futuro coesistono in lui. Egli sa dove gli Antichi calcarono i campi della Terra e dove torneranno a calcarli, là dove i riti sono stati urlati e le Parole pronunziate, quando le Stagioni erano adatte. Nessuno può contemplarli mentre camminano. Dal loro odore, talvolta, gli uomini possono sapere che Essi sono vicini, ma le loro sembianze nessuno conosce, eccetto che attraverso le sembianze di coloro che hanno generato tra il genere umano, e di questi ve ne sono di molte sorte: dai più simili all’immagine dell’uomo, alla forma invisibile priva di sostanza che è loro. Le loro fauci sono attorno alle vostre gole, eppure voi non li vedete, ed Essi dimorano là dove vegliate nelle vostre stesse case. Il Guardiano è la chiave della soglia, dove le sfere s’incontrano. Gli uomini regnano oggi dove un tempo Essi regnarono; ma presto Essi regneranno dove gli uomini oggi regnano, perché dopo l’estate è inverno, e dopo l’inverno estate”.

Il fanciullo Yog cresceva e si fortificava con una velocità innaturale. Egli era forte, intelligente e vigoroso, molto precoce rispetto alla sua età, eppure di una bruttezza inquietante. Visse in regioni deserte, cercando frammenti del libro innominabile del Profeta Folle presso certi rifugi di cenobiti farneticanti e orbati del senno, fino al giorno della sua manifestazione al Guardiano della Soglia.

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Frattanto, Giuseppe si accorse che Maria, sua sposa, era incinta. Egli non voleva accusarla di adulterio, pur sapendo che il figlio che portava in grembo non era il suo, ma meditava di ripudiarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un Angelo della Guida, sotto forma di un cumulo di sfere iridescenti trasudanti un osceno brodo primordiale. L’Angelo, con una voce atona e priva di parole distinguibili, eppure a lui perfettamente comprensibile nel sogno, gli disse: “Giuseppe, figlio di David, non temere di tenere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dall’Esterno. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Sothoth: egli infatti sarà l’apertura della Porta nel mondo”. Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo.

Ora, si compirono per Maria i giorni del parto. In quei giorni un’atmosfera ancora più inquietante del solito si respirava a Nazareth. L’aria afosa durante il giorno sembrava carica di miasmi sottili e inodori che mozzavano il respiro, risucchiando le forze e annebbiando le menti. Stormi di caprimulgi si radunavano in modo insolito, provenienti da ogni direzione, posandosi sui rami rachitici degli alberi, contorti come dita di un anziano morente, piegandoli sotto il loro peso. Gli uccelli non emettevano alcun verso, ma sembravano aver divorato fino all’ultima delle fastidiose cicale, al punto che non se ne sentiva più lo stridio. Al suo posto, tutta la conca risuonava del basso fruscio delle penne dei caprimulgi che si assestavano spingendosi l’un l’altro per trovare spazio sui rami. I loro occhi neri e privi di emozioni guardavano fissamente verso il villaggio, e il loro sguardo poteva essere percepito in ogni momento, anche quando la notte veniva a nasconderli alla vista con il suo manto oscuro. Allora le stelle vibravano di una luce vivida e strana, come se avessero cambiato impercettibilmente posizione e fossero un po’ fuori fuoco. Anche la luna sembrava più grande e inspiegabilmente minacciosa. Le colline erano piene di sussurri inaudibili a un ascolto cosciente. Fu proprio di notte, che Maria percepì che era arrivato il momento. Una contrazione fortissima ed estremamente dolorosa la colse, mentre le acque si rompevano. Come obbedendo a un richiamo senza parole, si trascinò fuori, fino a una vicina stalla. Mentre correva alla luce livida della luna, con le gambe appiccicose di liquido che continuava a colare dal suo ventre, ripeteva tra sé: “Non c’è posto per noi, non c’è posto per noi…” Finalmente raggiunse la stalla e si dispose supina sopra una mangiatoia piena di fieno. Le sue grida lancinanti salirono al cielo, seguendo il ritmo sempre più rapido delle contrazioni, fondendosi con un terribile suono che prese a diffondersi per tutta la conca: tutti i caprimulgi, all’unisono, nel buio, emettevano i loro versi spettrali in perfetta sincronia con i gemiti del parto. L’ultimo grido fu il più forte, e mentre si strozzava in un gorgoglio indistinto, migliaia di caprimulgi si alzarono in volo nella notte con un frastuono d’ali, salutando la venuta del Nuovo Antico, il suo ritorno.

Una cosa molle, gelatinosa, enorme, come un uovo pulsante, tutta coperta di tentacoli attorcigliati, con decine di arti tubolari e segmentati, da ragno, che si estroflettono ritmicamente come stantuffi, dappertutto grandi occhi ciliati e sporgenti, bocche e proboscidi che si aprono e si agitano, macchie di colori lividi come il blu cobalto e il porpora, cangianti e pulsanti anch’essi come cromatofori di un polpo, e in cima a tutto, un minuscolo volto dalle guance paffute, incorniciato da riccioli biondi, che piange e grida al mondo: “esisto!

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Beh, non credo che si potesse profanare oltre la natività. Pausa.

Detto ciò, tuttò ciò che hai scritto lascia il segno: la tua descrizione del paesaggio, le cicale, i caprimulghi, l'orrido vaticinio di Zaccaria, la comunità di genie deviate e , in generale, l'alone fetido e inquietante che permea il racconto. Tutto è talmente vivido e coerente che mi pareva di leggere Lovecraft nè più nè meno.

Quindi mi hai creato un bel problema perchè vorrei dire che è un capolavoro ma la rigurgitante blasfemia me lo impedisce!

In effetti, ho avuto la sensazione di aver esagerato, ma il desiderio di seguire fino in fondo l'intuizione iniziale era troppo forte. Sono riuscito a inorridire anche me stesso mentre mettevo insieme questo "collage", quindi penso di aver raggiunto il mio scopo.
Non ho avuto il minimo rispetto... non sono del tutto fiero, ma ormai è fatta!

..mi chiedo cosa ne penserebbero certuni da queste parti .. non è esattamente "storiella edificante sulla mia giornata buffa e simpatica prima di capodanno" XD

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