Simile a un dio mi sembra quell'uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, sùbito non posso
più parlare,
la lingua si spezza, un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre,
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano,
un sudore freddo mi pervade, un tremore
tutta mi scuote, sono più verde
dell'erba e poco lontana mi sento
dall'essere morta.
Ma tutto si può sopportare...
Saffo, VI sec. a.C.
L'idea che la pelle sia il nostro guscio protettivo, come si vede, è antichissima. Se qualcosa ci turba, se siamo in ansia, persino se abbiamo una malattia, spesso la nostra pelle lo rivela: arrossamenti, bollicine, sudorazione, fino a vere e proprie lesioni. E' l'organo più esteso del nostro corpo, quello più esposto, il più delicato e il più complicato anche da gestire. Non è infatti soltanto funzionale a separarci dagli agenti più aggressivi dell'ambiente, ma è contemporaneamente ciò che ci rende visibili e presenti allo stesso ambiente. Noi copriamo o esponiamo la pelle a seconda delle stagioni e delle persone che abbiamo intorno, con maggiore o minore intimità, perché appunto chi ci arriva alla pelle è già arrivato quasi all'essenza.
Possiamo decidere di non raccontare la nostra storia, ma quella che racconta la nostra pelle non possiamo nasconderla a nessuno. La nostra salute, la nostra età, le nostre cicatrici, più o meno superficiali, tutto è lì sopra, come su un libro aperto a tutti. Lo sappiamo, e per questo il nostro involucro diventa oggetto di cura o di accanimento, a seconda della serenità che abbiamo raggiunto nel nostro stare nel mondo e davanti al mondo.
Il nostro corpo è, a ben riflettere, un paradosso: è il nostro primo possesso, ma anche l'oggetto dello sguardo altrui, che per Sartre è il campo del dominio. Quindi ognuno di noi deve fare i conti con l'idea che il corpo è il luogo dove incontriamo l'altro, ciò che ci rende noi stessi e insieme altro per gli altri. Molto, come sempre nelle cose della psiche, dipende da quanto il bambino molto piccolo viene accarezzato, tenuto, manipolato dalle mani della madre o di chi se ne prende cura, da quanto quelle mani l'abbiano fatto sentire oggetto e soggetto di pelle, quanto lo abbiano definito nei suoi limiti rispetto a sé e al mondo intorno.
Queste considerazioni mi vengono dall'osservazione dei comportamenti di molti adolescenti e di molti adulti, che non trovano pace nel loro continuo intervenire sulle caratteristiche esteriori del loro corpo e della loro pelle, in particolare. Tatuaggi, piercing, colori compulsivi sui capelli e tutto l'armamentario. Non è certo mia intenzione criticare ciò che non ha nessun motivo di critica. Mi chiedo solo che cosa vuol dire al mondo chi usa la pelle e non le parole per raccontare la sua storia.
Mi si dirà: "ma, in fondo, che differenza c'è tra la signora a destra e quella a sinistra?"
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Convenzioni culturali e nient'altro, direi. Tra l'altro appare molto più gaia la prima, con tutti i suoi cerchietti, che la seconda coi quei due unici pendenti. Potenza dell'ambiente circostante.
Tuttavia, se esistono culture in cui l'azione anche cruenta su di sé ha significati sociali, questo non vale qui da noi, che abbiamo altri criteri di valutazione del "bello" e del "buono", anche senza scomodare la kalokagathìa dell'eroe omerico. Parlo di scarificazioni e di piercing estremi, ovviamente:
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L'uso di divaricatori per i lobi è molto antico, come attesta questo rilievo Maya. Quindi nulla di strano?
No, nulla di strano. Come dicevo, oggi nelle nostre città occidentali, portare un cerchietto al naso o esibire decorazioni epidermiche fatte di cicatrici non ha un senso sociale, né liturgico, ma è un linguaggio nuovo per dire cose che, forse, tanto nuove invece non sono. Mamma, guardami, dice il bambino piccolo, con ogni suo gesto, per concentrare lo sguardo della madre su di lui, perché è quello sguardo che lo riconosce e lo crea.
Guardami! Qua negli occhi - dentro! Non hanno più veduto per me, questi occhi; non sono stati più miei, neppure per vedere me stessa! Sono stati così - così nei tuoi - sempre - perché nascesse in loro, da questi tuoi, l'aspetto mio stesso, come tu mi vedevi [...] in me non c'è più nulla di mio: fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi!
L. Pirandello, Come tu mi vuoi, 1930, p. 207
E' la preghiera della protagonista, l'Ignota, a Bruno, che potrebbe o meno essere suo marito. Dice quello che ognuno di noi sperimenta ogni giorno, che è solo lo sguardo dell'altro che ci permette di scoprire o di riscoprire un'immagine ideale di noi stessi.
Non so come parlare della pelle e tu mi hai dato ottime parole per farlo. La pelle dice molto, dice quasi tutto. Parla delle tue origini profonde, del tuo rapporto col sole, delle tue insicurezze e della tua età. Dice se fumi o se bevi, se hai dipendenze, se sei riposata, felice, angosciata. La pelle è un archivio è uno specchio, la pelle a volte brucia, tira e chiede aiuto. La pelle ci abbraccia per tutta la vita. Grazie taxi 😘
Grazie a te dello splendido commento, tes 😘
La riflessione mi piace, mi colpisce personalmente, forse perché ho usato la mia pelle per farci scrivere qualcosa, per fissare un momento e una parte della mia storia attraverso un simbolo che solo per me e per pochi ha un senso; in un posto nascosto persino quando indosso il costume da bagno (perché è mio e solo mio, so che c'è, ma è un segreto tutto personale, intimo, da non svelare banalmente al primo che passa).
Un pesciolino rosso, un piccolo Boris che mi ha portato fortuna e sfortuna, cambiamento e scoperte, consapevolezza e riconoscimento, sofferenza e rinascita. A volte, mi dimentico di quel pesciolino, poi mi capita di intravederlo, distrattamente, e mi rendo conto della strada fatta, mi ricordo dei motivi che mi hanno spinto a farmelo tatuare sulla pelle e del percorso tortuoso della mia vita. Ecco, a volte la pelle parla, ma senza esibizioni e senza urla. Parla agli altri ma parla anche a noi stessi.
Odio aghi e cose simili, ma ammetto che l'idea di cristallizzare un simbolo importante fissandolo sulla pelle, per me ha un bel fascino. Amo il significato di quei segni, quando hanno un senso, ovviamente. Ma non amo quando sono esibiti, urlati, proprio perché a volte ci leggo dietro una richiesta di attenzione :) La sfilza di infiniti piazzati ovunque nei corpi delle ragazzine, ad esempio, un po' mi turba.
Conosco un ragazzo, ad esempio, che in adolescenza ha fatto l'errore (ad oggi lo ammette) di farsi tatuare dei simboli addosso, solo per fare il galletto con una fanciulla e per esibizionismo, ma anche per fare arrabbiare un po' i genitori. Oggi odia quel tatuaggio, non lo rappresenta, ma ogni giorno gli si rivela addosso.
Così come ho conosciuto una persona molto appassionata di tatuaggi, che usa il proprio corpo come una tela ma non perché voglia esibirsi in una richiesta di attenzione: è orgoglioso di portare addosso la firma di tatuatori ricercati e incontrati in giro per il mondo, di avere un pezzetto della loro arte addosso. È un tautatore anche lui, o almeno lo era quando l'ho conosciuto, parecchi anni fa'. Mi disse che ogni tatuaggio era come un pezzo della sua storia fissato nel tempo, un'esperienza, qualcosa che sarebbe rimasto per sempre nella sua memoria e che aveva bisogno di imprimere oltre che nella mente, anche nel corpo.
Nel mondo di oggi, credo sia normale vedere questo miscuglio di "marchi", che a volte nascono da una volontà di differenziarsi, altre da quella opposta di conformarsi; giovani e meno giovani, tutti coinvolti in questo processo. Colgo gli aspetti negativi, ma anche quelli positivi.
E non posso fare a meno di osservare, sorridendo, il mio piccolo Boris, che sta sempre lì, sulla mia pelle, ricordo e monito.
Che bel commento. Anch’io medito da molto di farmi un piccolo tatuaggio, per tenere sempre addosso il significato di quell’immagine. Per me, un diamante.
Il senso del discorso ovviamente partiva dalla lettura del libro che ho citato alla fine, che parla di realtà molto più significative dei nostri piccoli pesciolini.
Grazie 🐠
Bellissimo post , l’argomento trattato è senza dubbio pieno di molteplici riflessioni , come asserisce anche @marcodobrovich vorrei capire pure io se esiste un limite e questo continuo desiderio di apparire agli altri non più attraverso la propria pelle ma sotto nuove spoglie. , abbiamo visto recentemente programmi dove persone hanno subito centinaia di interventi per essere simili al Ken o alla Barbie , ecco questo per me è assurdo , poi per carità rispetto le scelte altrui.
Sì, spesso sono grida dal silenzio. Il corpo usato come amplificatore di qualcosa che non trova altre vie d’uscita. Ho avuto anni fa un alunno che, col passare degli anni, si è procurato una serie di piercing sempre più evidenti e invasivi. Era evidente quanto fosse un ragazzo complicato, incapace di affrontare i suoi scogli interiori. Spero per lui che col tempo l’abbia imparato.
Grazie di aver letto e commentato.
Io direi che la differenza è molto ma molto più forte che quella legata a convenzioni culturali, io direi che vivono in un modo diverso (le due donne), che solo il nostro sguardo alla fine accomuna in un unico mondo, all'interno del quale ci sono piccole differenze, convenzioni culturali. Ma, infine, è quello che dici anche tu.
Appunto, si adornano. Per se stesse e per il proprio mondo che le guarda.
...ok alle modificaIoni corporee. Mi domando, in questo contesto, ci sarà mai un momento in cui, “superata una certa soglia”, si possa/debba parlale di mortificazione corporea?
Votato 100%, ovviamente! 😉
In alcuni casi è proprio così. Per questo la cosa è oggetto d’interesse per i terapisti.
Grazie dell’apprezzamento 😘